Tech HumanX Diffamazione online, "presenza virtuale" e confini della libertà di espressione sui social media Laura Biarella 18 August 2025 Digitalizzazione La Corte di Cassazione (sentenza n. 29458/2025 depositata il 12 agosto) ha tracciato i confini della responsabilità penale nell’era digitale. Il riferimento è ai reati di diffamazione commessi attraverso i social media. La vicenda solleva questioni sulla “presenza virtuale” e sulla “parità delle armi” nel contraddittorio online. Il pronunciamento appare destinato a lasciare un monito sul modo in cui la giustizia interpreta le interazioni nel mondo sempre più connesso delle “smart cities”, dove la comunicazione digitale è un tassello fondamentale. Offese su TikTok La vicenda giudiziaria è originata con la condanna di una donna da parte del Tribunale e in seguito confermata dalla Corte d’Appello. L’imputata era stata ritenuta responsabile del reato di diffamazione aggravata (art. 595, comma 3, codice penale). Aveva infatti diffuso espressioni offensive contro un uomo tramite video pubblicati sul social network “TikTok” tramite un profilo alla medesima riconducibile. La difesa della donna ha proposto ricorso per cassazione, articolando due motivi principali di censura. Il primo motivo denunciava la violazione di legge in relazione all’art. 595 c.p., asserendo che la presenza, anche se virtuale, dell’offeso al momento della trasmissione dei video escludesse la configurabilità della diffamazione, riconducendo il fatto all’ingiuria aggravata, peraltro depenalizzata. Il secondo motivo verteva sul vizio di motivazione, poiché la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare la richiesta di applicazione dell’art. 599 c.p. relativa alla provocazione, adducendo che le offese fossero state pronunciate in uno stato d’ira cagionato da precedenti “frasi bullizzanti” proferite dall’offeso verso il figlio gravemente malato dell’imputata. Confine tra ingiuria e diffamazione nell’era digitale L’hub della questione risiede nella distinzione tra ingiuria e diffamazione. Tradizionalmente, la differenza tra i due reati (con l’ingiuria ora depenalizzata) si basava sulla presenza o assenza del destinatario delle espressioni offensive. Nell’ingiuria, la comunicazione risulta diretta all’offeso, che è presente e può interloquire con l’offensore. Nella diffamazione l’offeso è estraneo alla comunicazione offensiva, che avviene tra l’offensore e più persone. L’avvento delle moderne tecnologie e dei social media ha reso necessaria una ridefinizione del concetto di “presenza”. La V Sezione Penale della Corte di Cassazione ha chiarito che la “presenza virtuale” non è sempre equiparabile alla presenza fisica ai fini della configurazione dell’ingiuria. Nonostante situazioni quali le call conference, le audioconferenze o le videoconferenze possano configurare una presenza virtuale equiparabile a quella fisica, consentendo un’interlocuzione diretta, ulteriori modalità di comunicazione digitale non offrono le medesime garanzie. Il collegio ha evidenziato che la diffamazione si configura quando manca la possibilità di un’interlocuzione diretta e paritaria tra autore e destinatario dell’offesa, il quale resta privo della possibilità di replica immediata ed efficace. Tale principio era già stato affermato per l’invio di e-mail o messaggi in chat non percepiti nell’immediatezza dall’offeso. TikTok e le “Live” Nel caso dei video su TikTok trasmessi “in diretta”, la Corte ha ritenuto che la circostanza che l’offeso abbia assistito alla trasmissione non consenta di affermarne la “presenza” nel senso che esclude la diffamazione. La possibilità di inserire “commenti” contestualmente alle immagini e alle frasi pronunciate nel video è stata giudicata uno strumento di interlocuzione limitato, che non mette in rapporto diretto e paritario offensore e offeso. Per l’effetto, non garantisce un contraddittorio immediato, reale ed effettivo, che garantisca una sostanziale “parità delle armi”. La sentenza ha richiamato precedenti pronunce relative a dichiarazioni offensive rese in interviste televisive, dove l’invio di un SMS al conduttore a opera del destinatario non è stato ritenuto sufficiente a stabilire un rapporto diretto e paritario. Il collegio ha evidenziato che i video incriminati sono rimasti presenti sulla piattaforma social anche in seguito alla diretta, essendo stati visti e “condivisi” da numerose persone. In questo scenario, l’assenza di una possibilità di replica immediata da parte dell’offeso è ancora più evidente, rafforzando la configurazione del delitto di diffamazione aggravata dall’utilizzo di un mezzo di pubblicità diverso dalla stampa. Provocazione e relativi limiti, necessità di un fatto ingiusto Circa il secondo motivo di ricorso, relativo all’invocata causa di non punibilità della provocazione ex art. 599 c.p., la Corte lo ha ritenuto generico e infondato. La Corte territoriale aveva già replicato a questa censura. Aveva infatti evidenziato come nelle espressioni dell’uomo non vi fosse alcun “fatto ingiusto altrui” tale da provocare uno stato d’ira nell’imputata che ne determinasse la controreplica. La Cassazione ha ribadito che la valutazione di fatto operata dalla Corte territoriale risultava corretta e logica. Non sono sufficienti “generici atteggiamenti scortesi” o una “mera percezione negativa” da parte dell’agente per integrare il fatto ingiusto altrui. Malgrado il fatto ingiusto possa consistere anche nella lesione di regole di civile convivenza, occorre che esso sia apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo. Nella specie, le frasi asseritamente pronunciate dall’offeso sono state indicate dall’imputata in modo del tutto generico, come è risultato dal ricorso. Implicazioni per la smart city e futuro della giustizia digitale Questo pronunciamento ha implicazioni significative per la “smart city” e l’evoluzione del diritto nell’era digitale. In un contesto in cui le interazioni sociali e professionali avvengono sempre più online, la pronuncia chiarisce come le offese veicolate tramite piattaforme digitali debbano essere considerate. Non si tratta solamente di una questione giuridica, bensì pure di un monito sociale. Gli utenti dei social media devono essere consapevoli che la facilità di pubblicazione e condivisione non esonera dalla responsabilità penale. Le piattaforme, pur offrendo strumenti di interazione, non sempre garantiscono un contraddittorio immediato ed equo, fondamentale per distinguere un’offesa personale da una diffamazione pubblica. La decisione rafforza il principio che l’ambiente virtuale non è una zona franca, bensì un luogo dove le regole del vivere civile e le norme giuridiche mantengono la loro validità e applicazione. Per le città intelligenti, dove la connettività è un pillar, risulta essenziale che pure la “netiquette” e il rispetto reciproco siano garantiti e, in ipotesi di violazione, tutelati dalla legge. La sentenza in disamina rappresenta uno step ulteriore verso una giustizia digitale capace di interpretare le nuove dinamiche comunicative. Al contempo garantisce la tutela della reputazione e della dignità individuale in un mondo sempre più interconnesso.