Il teatro della giustizia. Quando la denuncia diventa spettacolo

Il teatro della giustizia. Quando la denuncia diventa spettacolo

​In un’epoca in cui la vita si svolge in gran parte sui social media, dove il confine tra pubblico e privato è diventato poroso, la denuncia di un sopruso ha assunto nuove forme.

Il grido di dolore di una ragazza, diventato virale in un attimo, ha sollevato un dibattito acceso e scomodo.

Una giovane donna, in lacrime, denuncia una molestia verbale subita durante una tac in ospedale: un professionista, in un contesto di vulnerabilità, le avrebbe rivolto una frase inappropriata.

In un istante, la vicenda si trasforma in un fenomeno mediatico, ma presto il vento cambia direzione.

Si scopre che la ragazza è un’aspirante attrice, e le foto che posta sui social mostrano una personalità disinibita, provocatoria.

E così, l’empatia si trasforma in sospetto, il sostegno in gogna mediatica.

L’episodio, anziché essere un’occasione per una riflessione profonda sulla violenza verbale, si trasforma in un processo parallelo in cui l’accusa è contro la vittima dichiarata.

​In questa vicenda, come in molte altre analoghe, il dibattito si è acceso non sulla veridicità dell’accaduto — un elemento che spetta unicamente alle indagini ufficiali — ma sulla narrazione che ne è stata fatta.

Quali sono le dinamiche sociali e psicologiche che si attivano quando un’accusa, vera o presunta, viene messa alla gogna pubblica, scavalcando il processo giudiziario?

​La dissonanza del giudizio

​Per comprendere la rapidità con cui il supporto si è trasformato in sospetto, dobbiamo analizzare la vicenda attraverso il prisma della dissonanza cognitiva.

Questo fenomeno psicologico descrive il disagio che proviamo quando due credenze o idee contrastanti coesistono nella nostra mente.

Per risolvere questo conflitto interno, tendiamo a modificare una delle due idee per ristabilire un senso di coerenza.

​Nel caso specifico, il pubblico si è trovato di fronte a un’inaspettata contraddizione: da un lato, l’immagine stereotipata della “vittima perfetta” — fragile, innocente e insicura — e dall’altro, la realtà di una donna che si mostra in modo disinibito e sicuro di sé sui social media.

Queste due figure sono in aperto conflitto.

​Invece di rimettere in discussione lo stereotipo di vittima, cosa che richiederebbe un’autoriflessione complessa, la via più semplice per la nostra mente è quella di svalutare l’accusa o la credibilità della persona.

Così, il pianto non viene più visto come l’espressione di un dolore autentico, ma come la prova di un atto teatrale o di una presunta strumentalizzazione.

Questo meccanismo di difesa psicologica, generalmente, alimenta la vittimizzazione secondaria e sposta l’attenzione dall’atto illecito al comportamento della vittima, un processo che rende la giustizia un esercizio di conformità anziché di verità.

​L’importanza della denuncia

​Al di là di ogni potenziale strumentalizzazione, questo episodio ci ricorda l’importanza di non tacere.

È fondamentale che chiunque subisca una violenza trovi il coraggio di segnalare l’accaduto.

Tuttavia, affinché questo atto sia davvero efficace, non deve diventare uno spettacolo sui social media.

Se si trasforma in uno show mediatico, si rischia di innescare una gogna pubblica che può distruggere la vita di una persona prima che i fatti siano stati accertati.

Solo le autorità e i tribunali hanno il compito di indagare e giudicare, garantendo un percorso di giustizia basato sui fatti.

​Il teatro della giustizia, dove il verdetto è un “like”

​Ciò che distingue questo episodio non sono gli individui coinvolti, ma il palcoscenico su cui sono stati costretti a recitare.

L’arena dei social media non è un’aula di tribunale, ma un teatro della giustizia dove la forma conta più della sostanza.

​Questa dinamica non è del tutto nuova.

Anche nell’antica Roma, la condanna non avveniva solo nelle aule del Senato, ma nel foro, il cuore della vita pubblica, dove la reputazione di un uomo poteva essere distrutta dalle accuse urlate davanti alla folla.

I processi di stregoneria, le inquisizioni, tutti mostrano come l’umana inclinazione a giudicare in base alla passione, al pregiudizio e al dramma sia sempre esistita.

​Oggi, tuttavia, il teatro è globale.

In questo teatro virtuale, il dramma è messo in scena per un pubblico illimitato che è al tempo stesso giuria, giudice e carnefice.

Il copione non è basato su fatti verificati, ma su un video, un’immagine, un titolo accattivante.

I ruoli sono rigidi: la vittima deve essere credibile, il carnefice un mostro.

E il verdetto non è una sentenza, ma un torrente di “like”, “condivisioni” e commenti feroci.

A differenza di un’aula di tribunale, dove le prove vengono vagliate in un contesto controllato e imparziale, nel teatro della giustizia ogni spettatore è libero di proiettare i propri pregiudizi e le proprie esperienze.

La gogna diventa la pena, e la reputazione la valuta.

​Questo è il vero pericolo: la delegittimazione del sistema giudiziario formale a favore di un processo emotivo e spettacolare.

Non conta chi ha torto e chi ha ragione, ma chi riesce a raccontare la storia più convincente.

E questo è un danno per la società intera.

Perché ci abitua a pensare che la giustizia sia solo uno spettacolo, una performance, un copione da recitare sui nostri telefoni.

La vera lotta non è tra due individui, ma tra la giustizia dei fatti e la giustizia del palcoscenico.

Antonella Renzetti