Legal “Mia Moglie”, il lato oscuro del digitale Angela Iacovetti 06 September 2025 Privacy I recenti fatti di cronaca relativi al gruppo on line “Mia Moglie” non rappresentano solo cronaca scandalistica, ma inducono a riflessioni giuridiche sul modo in cui la rete può diventare strumento di controllo dei corpi e di demolizione della dignità. Non solo è stata violata la privacy” o configurato il “revenge porn”, ma sono emersi nodi giuridici che toccano la dignità sociale, la responsabilità collettiva e perfino i limiti del diritto penale tradizionale. Riguardo al caso “Mia Moglie” possiamo parlare di pornografia senza autore: contenuti che vivono di vita propria, sganciati dalla volontà di chi vi compare. L’effetto è devastante: il corpo della donna smette di appartenerle e diventa una merce che circola senza controllo, con conseguenze professionali, affettive e psicologiche incalcolabili. Privacy oltre il GDPR: la dignità relazionale La diffusione incontrollata, e senza consenso delle persone interessate, di immagini intime e private sui social network non è solo una scorrettezza etica, ma una lesione del diritto alla riservatezza e alla tutela dei dati personali, sancito dal Regolamento UE 2016/679 (GDPR) e dal Codice della Privacy italiano (D. Lgs. 196/2003 e ss. mm.). In particolare, diffondere immagini che riguardano la sfera sessuale configura una trattazione illecita di dati sensibilissimi, così qualificabili ai sensi dell’art. 9 GDPR, la cui assenza di consenso integra un abuso che può essere perseguito anche civilmente, con richiesta di risarcimento danni. In Italia, l’art. 167 Codice Privacy prevede la reclusione fino a tre anni per chi diffonde dati personali in violazione della disciplina vigente, ma solo se la diffusione avviene al fine di trarne profitto o recare nocumento (dolo specifico). Ma oltre che al controllo sulla loro immagine, le donne “postate” nel gruppo sono state colpite nella reputazione, nell’identità sociale, nella vita familiare. La riservatezza non è solo un diritto individuale, ma un bene collettivo; l’offesa, dunque, non è solo alla “titolare del dato”, ma alla sua rete di relazioni. LEGGI: La privacy relazionale nell’era delle smart city Violazioni del codice penale Sul piano penale, le condotte di chi posta contenuti in gruppi social possono integrare diversi reati: Art. 612-ter c.p., introdotto dalla legge 69/2019 (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, c.d. revenge porn): punisce con la reclusione fino a 6 anni e multa fino a 15.000 euro chi condivide materiale intimo destinato a rimanere privato. La Cassazione ha chiarito che il reato si configura anche in una chat ristretta, trattandosi di estranei, in ogni caso. Art. 595 c.p. (diffamazione): qualora la diffusione sia accompagnata da commenti che ledono la reputazione di una persona. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone), se vi è un intento persecutorio, mediante reiterate condivisioni. Reati nascosti dietro le chat Il fenomeno può intrecciarsi anche con altre ipotesi di reato: Associazione a delinquere (art. 416 c.p.), se il gruppo che viola la riservatezza è organizzato con ruoli e compiti. Violenza privata (art. 610 c.p.), quando la diffusione diventa strumento di ricatto o pressione. Concorso morale: chi guarda, commenta o incoraggia può essere punibile al pari di chi condivide, perché rafforza l’altrui condotta criminosa. Il diritto penale punisce anche chi coopera psicologicamente al reato. Chi vigila sulle piattaforme? Non solo gli utenti che postano, ma anche gli amministratori dei gruppi possono incorrere in responsabilità penali e civili. Consentire o favorire la condivisione di contenuti illeciti equivale a cooperare alla loro diffusione. L’amministratore di una chat che non intervenga a bloccare la circolazione di contenuti illeciti risponde di concorso nel reato (art. 110 c.p.). La situazione non cambia per le app di messaggistica (Whatsapp, Telegram, Signal e via discorrendo), poiché la diffusione ad un numero indeterminato di persone costituisce un atto di pubblicazione. E le piattaforme? Devono vigilare? Fino a che punto? Un “social”, che guadagna grazie al traffico generato anche da questi gruppi, può restare neutrale? La giurisprudenza europea comincia a muoversi in questa direzione, ma il terreno è ancora incerto. Il discorso sulla responsabilità dei provider, dei social network e dei motori di ricerca è un discorso complesso. Il provider è il soggetto grazie alla cui attività di intermediazione l’illecito è stato compiuto, e senza i cui servizi la condotta illecita non avrebbe potuto realizzarsi. Innanzitutto, diciamo che i provider non sono soggetti a un obbligo generalizzato di sorveglianza. Se così non fosse, essi sarebbero gravati da oneri eccessivi che recherebbero grave intralcio alle loro attività e ostacolerebbero lo sviluppo del commercio e dell’informazione on line. Secondo la Direttiva e-commerce (Dir. 2000/31/CE) e, più recentemente, il Digital Services Act (Reg. UE 2022/2065), i provider hanno obblighi di rimozione rapida (notice and takedown). Non sono tenuti a un controllo preventivo capillare, ma non possono rimanere inerti: se si accorgono dell’illiceità di alcune attività, sono obbligati ad informare le autorità, sia giudiziarie che amministrative. L’inadempimento potrebbe comportare l’attribuzione di responsabilità civile di tipo extracontrattuale (ex art. 2043 cod. civ.) per gli illeciti commessi dai loro utenti. Inoltre, le autorità possono sempre chiedere ai provider di fornire le informazioni in loro possesso, volte a identificare gli utenti e ciò in un’ottica di prevenzione delle attività illecite. Il problema è sistemico e legale. Finché i giganti del web potranno trincerarsi dietro lo status di semplici “fornitori di servizi” (hosting provider) e non verranno trattati come editori responsabili per i contenuti che veicolano e su cui lucrano, avranno sempre uno scarso interesse a “frenare” certi siti. Serve un quadro normativo europeo e nazionale che introduca una vera responsabilità civile e penale per le piattaforme, unico modo per obbligarle a sviluppare efficaci sistemi di controllo preventivo e a rispondere dei danni causati dalla loro negligenza. Uno sguardo oltre l’Italia: serve una patente digitale? Negli Stati Uniti il revenge porn può portare a pene fino a dieci anni di carcere. Nel Regno Unito, chi diffonde immagini intime senza consenso viene inserito nei registri dei sex offenders. L’Italia è ancora indietro nella severità delle sanzioni e rispetto alla rapidità di un “inoltra”. Allora, ci domandiamo se serva una patente digitale, per circolare on line senza arrecare danni ai diritti altrui (potrebbe essere uno spunto di educazione scolastica fin dalle scuole elementari). Conclusione Il caso “Mia Moglie” ci mostra che il diritto deve farsi più veloce e più coraggioso. E noi, come comunità, dobbiamo scegliere se restare spettatori o pretendere che anche online valga la stessa regola d’oro della convivenza fisica, ossia che la libertà di ciascuno finisce dove comincia la dignità (oltre che la libertà) dell’altro. “Il diritto di essere lasciati in pace è il più completo dei diritti e quello più prezioso per un popolo libero” (Louis Brandeis, The right to privacy, 1890). Nel mondo digitale, questa massima resta più che mai attuale. Angela Iacovetti