Tech Misc Città "smart" e democrazia, tra tecnologia, potere e futuro Angela Iacovetti 19 June 2025 AI App Digitalizzazione Nell’immaginario collettivo, la città smart è il simbolo del progresso: fatta di codici, algoritmi, sensori che regolano il traffico, ottimizzano la raccolta dei rifiuti, valutano la qualità dell’aria e molto altro ancora. L’intelligenza tecnica è neutra? La tecnologia di per sé, sì; ma chi decide se, come e quando usarla ha una visione del mondo, incarna modelli di autorità, segue ideologie; progettare tecnologie urbane significa fare politica. Siamo pur sempre di fronte a scelte e, per lo più, non visibili né sempre democraticamente negoziate. La smart city è un nuovo spazio politico in cui il potere si può manifestare in forme invisibili e pervasive. La telecamera che sorveglia è anche un giudice muto; il semaforo “intelligente” dà un’indicazione non contestabile; l’app che suggerisce il percorso più rapido è anche una mappa del pensabile. In questo senso, le città intelligenti modellano, anticipano e indirizzano la vita urbana. È per questo motivo che occorre parlare di democrazia: se non si ponesse la riflessione, significherebbe accettare che siano altri – invisibili, remoti, automatizzati – a decidere cosa è bene per tutti. L’automazione urbana rischia di svuotare gli spazi della decisione collettiva, delegandola ai sistemi di automazione: se un semaforo intelligente gestisce il traffico meglio di qualsiasi vigile, perché non lasciare a un algoritmo anche altre decisioni? Più una città diventa tecnologica, più il cittadino rischia di diventare un semplice “utente” di servizi, anziché un soggetto politico, con conseguente perdita del conflitto come fattore creativo di democrazia. Nuovi campi di esclusione La smart city è spesso presentata come una città green, sostenibile, inclusiva. Ma inclusiva per chi? Le infrastrutture digitali si sovrappongono a quelle materiali, e rischiano di creare nuove disuguaglianze invisibili: i “disconnessi” diventano gli esclusi della nuova Polis. Chi non possiede uno smartphone, chi non ha accesso a internet veloce, chi non sa usare un’applicazione, chi ha disabilità cognitive o sensoriali, chi vive ai margini digitali è tagliato fuori da una porzione crescente della cittadinanza attiva. Ipertrasparenza sorvegliata L’ossessione della trasparenza, con i suoi innegabili risvolti positivi, tipica delle smart city, si traduce in una sorveglianza ambientale diffusa: il cittadino è al tempo stesso produttore e oggetto di dati. I sensori che monitorano la qualità dell’aria, il traffico, i consumi energetici, i movimenti delle persone creano un ecosistema “ipertrasparente” in cui tutto è potenzialmente registrabile, analizzabile, predittivo. Ma in questa trasparenza si nasconde un’opacità: chi raccoglie questi dati? Chi li controlla? Chi li interpreta? La governance dei dati urbani è il nuovo terreno dello scontro democratico. L’opacità dell’algoritmo, protetto dal segreto industriale o dalle norme sulla proprietà intellettuale, si contrappone alla necessità di un controllo pubblico e collettivo. E una democrazia senza tutele è una democrazia dimezzata. Verso una democrazia aumentata? Eppure, la smart city promette un ampliamento di democrazia. Se ben progettata, la tecnologia può diventare una leva di partecipazione mai vista prima: basti pensare a piattaforme civiche decentralizzate che permettano dibattito e deliberazione collettiva su svariati temi. La città connessa potrebbe diventare il luogo dove la democrazia non solo resiste, ma si rinnova, si reinventa, si espande. In questa visione, la città intelligente è una città che ascolta, apprende, si adatta non solo ai dati, ma anche ai desideri e ai bisogni mutevoli dei suoi abitanti. Prospettive estreme Due sviluppi estremi possono delinearsi nel futuro della relazione tra città smart e democrazia. Nel primo scenario, la governance urbana viene completamente automatizzata. Un’intelligenza artificiale sovrintende alla mobilità, all’energia, all’ordine pubblico, alla sanità. Le decisioni non vengono più prese da rappresentanti eletti, ma da sistemi predittivi che anticipano i bisogni e ottimizzano le risposte. Efficienza assoluta, ma a prezzo della libertà. Nel secondo scenario, i cittadini si riappropriano radicalmente del potere decisionale. Grazie alle reti peer-to-peer le comunità locali autogestiscono l’energia, la mobilità, la sicurezza; la tecnologia è open source e controllata dai cittadini. È una democrazia radicale, partecipativa fino all’estremo, ma potenzialmente caotica, disuguale, frammentaria. Entrambi gli scenari sono paradigmi teorici, ma servono a ricordare che il futuro non è neutro: dipende dalle scelte politiche che si fanno oggi. LEGGI ANCHE Uno studio internazionale sulla smart city? C’è, e con approccio deep learning La necessità di un diritto urbano del XXI secolo Affinché la nuova Polis non diventi un laboratorio distopico, occorre un nuovo diritto urbano, che riconosca la cittadinanza digitale urbana come diritto fondamentale. Questo diritto dovrebbe includere: l’accesso universale ai servizi digitali pubblici; la trasparenza degli algoritmi decisionali usati in ambito urbano; la partecipazione reale alle scelte tecnologiche che incidono sulla vita cittadina; la protezione dei dati personali raccolti nello spazio pubblico; il diritto all’uso non sorvegliato degli spazi fisici e digitali della città. Città smart che pensa, ma anche ascolta Una città è davvero “smart” non solo quando pensa, ma anche quando ascolta; non solo quando prevede il comportamento degli abitanti, ma anche quando li rende capaci di autodeterminarsi. La sfida non è tecnologica, ma democratica: riuscire a fare della potenza del digitale un alleato della libertà, e non della sua sostituzione. Solo così la città intelligente sarà anche una città giusta e per l’Uomo. Angela Iacovetti