Il silenzio non è consenso, la Cassazione riconosce il “freezing” e rivoluziona la prova

Il silenzio non è consenso, la Cassazione riconosce il “freezing” e rivoluziona la prova

Il ghiaccio nell’anima, come la neuroscienza ha riabilitato il rifiuto silenzioso.

Il fenomeno del “freezing” consiste nel blocco emotivo e nella mancata reazione immediata della vittima a causa della sorpresa o paura, rendendo irrilevante il ritardo nel manifestare il dissenso.

La Cassazione (n. 22297/2025) ha stabilito che la violenza sessuale si configura anche con atti repentini e insidiosi, a prescindere dalla durata e dalla reazione della vittima.

L’onere della prova del consenso grava sull’imputato.

Il “freezing”

Pensiamo a un leone che si avventa su una gazzella: la fuga è la prima reazione.

Ma se la gazzella sa di non avere scampo, a volte si ferma. Congela.

Il corpo si paralizza, il respiro si acquieta, come se il mondo si fosse spento. Non è debolezza. Non è resa.

È l’ultima, disperata, primordiale strategia di sopravvivenza: il freezing.

Una risposta così arcaica, così profondamente radicata anche nella nostra biologia, che per troppo tempo è stata fraintesa, ignorata, persino condannata, specialmente nei luoghi dove la verità dovrebbe risplendere: i tribunali.

​Per decenni, il cliché della vittima ideale, quella che urla, che lotta, che graffia, ha dominato l’immaginario collettivo e, purtroppo, le aule di giustizia.

Se non c’era “reazione evidente”, se il corpo taceva, allora, troppo spesso, si presupponeva il consenso.

Un’idea semplicistica, brutale, che ignorava la complessità della psiche umana sotto attacco.

Ma oggi, qualcosa sta finalmente cambiando. Il silenzio del corpo, quel blocco incomprensibile agli occhi profani, sta iniziando a essere ascoltato e, incredibilmente, a riscrivere le leggi.

​Il congelamento traumatico: non “non volere”, ma “non potere”

​Il freezing non è un atto di volontà.

È una reazione fisiologica involontaria, un cortocircuito del sistema nervoso che, di fronte a una minaccia percepita come insopportabile e inevitabile, spegne i circuiti della lotta o della fuga per attivare una sorta di “shutdown” protettivo.

È un meccanismo di dissociazione: la mente si stacca, il corpo si irrigidisce o si fa flaccido, la capacità di pensare e agire razionalmente svanisce.

Non si è “assenti”, ma “sospesi”.

​Immaginiamo di essere lì, in quell’istante.

Non c’è pensiero, non c’è scelta.

C’è solo il corpo che si ritira, che si nasconde in sé stesso, in un disperato tentativo di sopravvivenza.

La depersonalizzazione ti fa sentire come se stessi guardando un film di te stesso, senza potervi intervenire.

La derealizzazione rende la scena irreale, distorta, quasi onirica.

Non è che non si voglia reagire, è che non si può.

Questo non è un segnale di acquiescenza, ma l’espressione più cruda di un trauma profondo, una ferita che paralizza prima ancora di essere inferta.

​La Cassazione e la rivoluzione del consenso: un punto di non ritorno

​Eppure, per anni, questa verità biologica e psicologica è stata ignorata.

Fino a sentenze che rompono gli schemi, come quella epocale della Corte di Cassazione (Sez. III Penale, n. 22297 del 13 giugno 2025).

Un caso apparentemente comune: una donna subisce abusi in ufficio, un lasso di tempo breve, nessuna reazione immediata.

Assolto, in primo grado, l’imputato. Perché? Mancanza di opposizione.

Come se l’assenza di lotta equivalesse a un “sì”.

​Ma la Cassazione ha squarciato il velo dell’ignoranza. H

a proclamato un principio rivoluzionario, un vero e proprio inno alla complessità umana:

  • ​La durata non conta: un attimo, un soffio, può violare la libertà sessuale. La lesione non si misura in secondi, ma nell’offesa alla libertà sessuale.
  • ​Il silenzio non è assenso: la mancata reazione non può essere letta come consenso, soprattutto quando il freezing è una spiegazione plausibile. Il corpo che tace non è il corpo che acconsente.
  • ​L’onere della prova si inverte: non è la vittima che deve dimostrare di aver detto “no”, di aver lottato. È l’imputato che deve dimostrare di aver avuto un consenso inequivocabile, libero e consapevole.

​Questa sentenza non è solo un verdetto, è una dichiarazione di intenti.

È un monito per i giudici, i legali e l’intera società: è ora di abbandonare le narrazioni semplicistiche e di abbracciare le evidenze scientifiche e psicologiche.

È ora di guardare oltre la superficie, di ascoltare i linguaggi non verbali del trauma.

​Verso una giustizia empatica, quando la scienza guida il diritto

​La decisione della Cassazione è più di una vittoria legale, è una vittoria culturale.

In un’epoca in cui si lotta per riconoscere ogni sfumatura della violenza di genere, questa pronuncia illumina il concetto di consenso come mai prima d’ora.

Non più la semplice assenza di un “no” espresso, ma l’affermazione attiva, consapevole e libera di un “sì”.

​Il freezing non è più un’anomalia inspiegabile, un ostacolo alla credibilità della vittima.

È diventato una chiave di lettura fondamentale, una lente attraverso cui reinterpretare comportamenti che, in passato, avrebbero portato a conclusioni ingiuste.

L’immobilità, l’incapacità di urlare o di fuggire, non sono segni di complicità, ma le cicatrici invisibili di un trauma profondo.

​Questa nuova sensibilità, alimentata dalle neuroscienze e dalla psico-traumatologia, sta plasmando una giustizia più umana, più attenta alla complessità delle reazioni di fronte al pericolo.

Il corpo che tace non è più un corpo che acconsente.

È un corpo che ha urlato in un silenzio assordante, un silenzio che finalmente, grazie a sentenze come questa, sta trovando la sua voce nel diritto.

Il “freezing” emotivo, dalla neuroscienza alla progettazione urbana empatica

Il concetto di “freezing” assume nuove e importanti implicazioni anche nel modo in cui progettiamo gli spazi urbani e i servizi digitali.

Le smart city, col loro utilizzo di tecnologie avanzate per migliorare la vita dei cittadini, devono necessariamente integrare una comprensione profonda del comportamento umano, compresi i meccanismi inconsci come il freezing emotivo, che può manifestarsi in situazioni di stress o pericolo.

La neuroscienza ci insegna che il blocco emotivo non è segno di passività, ma una difesa innata; pertanto, la progettazione degli ambienti smart deve considerare non solo l’efficienza e la connettività, ma anche la sicurezza percepita, la possibilità di fuga e supporto immediato per chi si trova in difficoltà.

Sensori intelligenti, sistemi di allerta rapidi e spazi pubblici inclusivi possono aiutare a “rompere il silenzio” del corpo, offrendo risposte tempestive che rispettino la complessità delle emozioni umane.

In questo senso, la nuova visione giuridica sul consenso e il riconoscimento del freezing come fenomeno reale si riflettono anche nell’urbanistica di domani, che deve diventare sempre più empatica, umana e capace di intercettare i segnali non verbali di disagio, trasformando la smart city in un luogo dove la sicurezza psicologica è parte integrante del benessere collettivo.

Antonella Renzetti