HumanX Universo 25, i ratti di Calhoun e gli spettri dell'hikikomori a.renzetti 13 August 2025 Hikikomori e smart city. Quando l’abbondanza genera l’implosione e la densità sociale soffoca lo spirito. L’esperimento “Universo 25” L’immagine è disturbante: un’utopia di cemento, creata per ratti, che si trasforma in una distopia silenziosa. Questo non è l’incipit di un romanzo di fantascienza, ma la realtà documentata dall’etologo John B. Calhoun nel suo esperimento più famoso, l'”Universo 25″. L’esperimento prevedeva la creazione di un paradiso per ratti: cibo, acqua, riparo e nessuna minaccia esterna. Eppure, superata una soglia critica di sovraffollamento, la società dei ratti collassò, non per mancanza di risorse, ma per una crisi comportamentale profonda. Calhoun osservò la comparsa di individui che definì “i belli”: topi che si ritiravano completamente dalla vita sociale. Non si accoppiavano, non lottavano per il territorio, passavano il tempo a nutrirsi e a pulirsi. La loro esistenza era un’eco vuota di un’antica vita sociale, un’apatia totale che presagiva la fine della loro stirpe. Questa immagine, seppur cruda, risuona in modo inquietante con il fenomeno Hikikomori, la sindrome dell’isolamento volontario che affligge milioni di persone in tutto il mondo. Dalla densità fisica alla densità sociale: il filo invisibile L’analogia più evidente è il ritiro sociale. I “belli” di Calhoun si isolavano in spazi angusti, rinunciando a ogni interazione. Gli hikikomori, allo stesso modo, si barricano nelle loro stanze, ma la causa del loro isolamento non è il sovraffollamento fisico, bensì un’insostenibile densità sociale. Viviamo in un’epoca di iperconnessione, dove la pressione a esistere, a performare e a essere costantemente visibili è soverchiante. Le aspettative di una carriera di successo, il bombardamento continuo di informazioni: tutto questo genera un’ansia da prestazione che, per molti, è insopportabile. Il mondo esterno non è un luogo da conquistare, ma una fonte inesauribile di stimoli aggressivi e giudizi. La stanza dell’hikikomori diventa un bunker, un rifugio dall’eccesso. Proprio come i ratti di Calhoun, che pur avendo abbondanza di risorse si autodistrussero, gli hikikomori spesso vivono in società ricche, in cui le necessità di base sono soddisfatte. Ciò suggerisce che il benessere di una società non si misura solo in termini di PIL o di beni materiali, ma anche in termini di salute emotiva e qualità delle interazioni umane. La tecnologia: dal ponte al bunker In questo scenario, la tecnologia gioca un ruolo ambivalente e cruciale. Inizialmente, può sembrare un ponte, un modo per mantenere un legame con il mondo esterno senza la pressione del contatto fisico. Piattaforme social, videogiochi online, chat: offrono la possibilità di costruire un’identità virtuale e di vivere interazioni “sicure”, prive delle ansie del faccia a faccia. Tuttavia, questo ponte si trasforma rapidamente in un bunker. La stanza dell’hikikomori diventa un “Universo 25” digitale, un ecosistema autonomo e autoreferenziale. Qui, l’abbondanza non è più di cibo e acqua, ma di contenuti e intrattenimento. La persona si nutre di stimoli virtuali, ma senza le interazioni significative che nutrono lo spirito. L’iperconnessione online e la costante esposizione a vite perfette e successi altrui generano un senso di inadeguatezza che amplifica il desiderio di nascondersi, rendendo l’isolamento una scelta non solo comprensibile, ma anche funzionale. La perdita di ruolo e la fine della narrazione personale L’esperimento di Calhoun mostra una totale perdita di ruoli sociali. I maschi smettono di essere protettori, le madri abbandonano la prole. La vita cessa di avere una struttura, una narrazione. Questo aspetto si riflette profondamente nella condizione dell’hikikomori. Spesso l’isolamento inizia dopo un fallimento scolastico o lavorativo, un evento che distrugge la narrazione personale e il senso di appartenenza a una comunità. La persona non si percepisce più come “studente”, “lavoratore”, “amico”. Il ruolo che ricopriva nella società viene meno, e senza di esso, la sua identità si dissolve. Entrambi i fenomeni, l’apatia dei ratti e il ritiro degli hikikomori, rappresentano il punto di rottura di un patto sociale implicito. I ratti non si riconoscono più come parte di una comunità funzionante; gli hikikomori sentono di non poter più aderire alle regole e alle pressioni della società. La scelta dell’isolamento è, in un certo senso, una rinuncia al gioco, un rifiuto di una partita le cui regole sono diventate troppo dure o, addirittura, incomprensibili. L’ombra dell’Universo 25 L’esperimento di Calhoun è una potente metafora. Ci ammonisce sul fatto che il benessere di una società non è garantito dalla semplice abbondanza. Al contrario, un ambiente saturo, sia fisicamente che socialmente, può portare a una disconnessione profonda, a un’implosione interiore. L’hikikomori non è solo un “fallimento” individuale, ma una spia rossa che si accende per segnalare una malattia del tessuto sociale. Forse, la vera sfida per la società moderna non è produrre di più, connettersi di più o correre più veloci, ma imparare a creare spazi di significato, a riconoscere il valore dell’individuo al di fuori di un’ottica di prestazione e a coltivare una coesione sociale che non si sgretoli sotto il peso dell’eccesso. I “belli” di Calhoun, nel loro torpore, e gli hikikomori, nelle loro stanze buie, ci chiedono di guardare oltre la superficie e di interrogarci sul prezzo che stiamo pagando per il nostro progresso. La loro apatia è forse il grido più silenzioso e drammatico di un mondo che ha perso la capacità di essere un luogo abitabile, non solo di corpi, ma anche di anime. Smart City, ma per chi? Nel contesto delle smart city, il fenomeno hikikomori ci costringe a riconsiderare i valori fondanti dell’innovazione urbana. Una città intelligente non può limitarsi a essere efficiente, connessa e automatizzata: deve essere anche empatica, inclusiva e capace di accogliere la fragilità. Se l’abbondanza tecnologica genera isolamento, e la densità sociale soffoca lo spirito, allora la vera intelligenza urbana risiede nella capacità di creare spazi di respiro, di ascolto e di relazione autentica. Le smart city del futuro non dovranno solo ottimizzare il traffico o ridurre le emissioni, ma anche prevenire l’implosione silenziosa di chi, pur circondato da tutto, sceglie di sparire. Perché una città è davvero smart solo se riesce a essere abitabile non solo per i corpi, ma anche per le anime. Antonella Renzetti