HumanX La fine di un covo d'odio, il silenzio su "Mia moglie" a.renzetti 23 August 2025 Il regno di “Mia moglie”, il più vasto e sinistro covo di misoginia sul web italiano, è finito. Un click e i suoi 32.000 membri, i loro post, le loro umiliazioni e il loro disprezzo sono stati spazzati via, lasciando dietro di sé un vuoto che per molti è una liberazione, per altri un’amara sconfitta. Questo gruppo era uno spazio privato dove gli uomini si radunavano per condividere, senza il loro consenso, foto e dettagli intimi delle proprie mogli, fidanzate e conoscenti, accompagnando il tutto con commenti umilianti, volgari e denigratori. Non era una semplice bravata, ma un fenomeno che rifletteva e alimentava una cultura di possesso, umiliazione e odio di genere. La sua chiusura non è la fine della storia, ma l’inizio di una riflessione su un fenomeno che non è un’anomalia, ma lo specchio deformato di una cultura malata. Il disimpegno morale, la strategia per annullare la coscienza Dentro quel gruppo, la misoginia non era più un sussurro, ma un urlo liberatorio e condiviso. Gli uomini si sentivano al sicuro, protetti dal manto dell’anonimato e dalla forza del numero. Non erano soli, e in quella massa si annullava ogni responsabilità. Questo fenomeno è un complesso meccanismo psicologico chiamato disimpegno morale, teorizzato dallo psicologo Albert Bandura. Si tratta dell’insieme di processi mentali che permettono alle persone di compiere azioni che violano i loro principi etici, senza provare senso di colpa. In questi gruppi il disimpegno si attiva in modi diversi: deumanizzazione: le donne vengono ridotte a oggetti, a bersagli su cui riversare frustrazioni, negando la loro dignità e il loro diritto a essere persone. etichettamento eufemistico: i commenti volgari e le umiliazioni vengono mascherati da “battute” o “sfottò”. confronto vantaggioso: i partecipanti si autogiustificano pensando che “ci sono cose ben peggiori”. In un mondo in cui ci si sente spesso impotenti, la denigrazione di un’altra persona diventa una fonte di potere, seppur effimera e perversa. La crisi della mascolinità e la complicità dell’algoritmo Questo fenomeno ci costringe a guardare in faccia la crisi della mascolinità contemporanea. In un’epoca di fluidità dei ruoli, alcuni uomini percepiscono la parità come una minaccia alla loro identità. I gruppi come “Mia moglie” diventano allora un rifugio tossico, un luogo dove poter riaffermare una mascolinità patriarcale ormai superata, basata sul dominio e sul controllo della donna. Il risultato di questo meccanismo è la disumanizzazione. A un’analisi più profonda, emerge un’altra verità scomoda: la complicità del sistema stesso. L’algoritmo di Facebook è progettato per massimizzare l’engagement, cioè il coinvolgimento degli utenti. La rabbia, il disprezzo e i contenuti controversi generano più interazioni. Il sistema non distingue tra “buone” e “cattive” interazioni, conta solo la quantità. Di conseguenza, il gruppo “Mia moglie” era una miniera d’oro per l’algoritmo, che non solo non lo ostacolava, ma probabilmente ne promuoveva i contenuti a un pubblico sempre più vasto. La dignità contro l’algoritmo: un conflitto esistenziale L’intera vicenda di “Mia moglie” può essere letta non solo come un reato o una crisi sociale, ma come il campo di battaglia di uno dei conflitti più profondi del nostro tempo: quello tra il diritto alla dignità della persona e la presunta libertà di espressione alimentata da un’architettura digitale che premia la controversia. In questo scontro la dignità non è più solo una questione morale o legale, ma diventa un concetto da difendere attivamente in uno spazio pubblico dominato da logiche che la ignorano. L’algoritmo, nel suo cinismo matematico, non ha un’etica; conosce solo un obiettivo: l’engagement. Il dolore, l’umiliazione, l’odio diventano semplicemente dati, metriche da ottimizzare. Un’occasione mancata, ma una battaglia che continua La chiusura di “Mia moglie” è stata una vittoria importante, ma non definitiva. L’immediata riorganizzazione in nuovi gruppi con nomi simili, come “Mia moglie 2.0”, dimostra che l’odio online è un’idra con molte teste: tagliarne una non è sufficiente a sconfiggerla. Questa resilienza dell’odio ci spinge a una riflessione più profonda. La lotta per un mondo digitale più sano non si vince con un solo atto di censura, ma con un cambiamento culturale profondo e con una pressione continua sulle piattaforme affinché ridefiniscano le loro priorità. La denuncia, la pressione pubblica e l’intervento delle piattaforme possono fare la differenza. È un passo importante per far capire che l’odio online non è un gioco, ma un reato, punibile dalla legge. La fine di quel gruppo è la dimostrazione che il silenzio complice non è più un’opzione. La battaglia per un mondo digitale più sano è appena iniziata, ma la chiusura di quel covo ci dà la speranza che un futuro diverso sia possibile. La dignità umana ha un valore intrinseco che deve prevalere sulla logica del profitto e dell’algoritmo. Antonella Renzetti